Donald Trump ha sempre ritenuto che tutto ciò che gira attorno alla politica estera sia più un affare per spie che per diplomatici e che entrambe le categorie debbano essere a disposizione del presidente per i propri scopi. In quest’ottica mise alla guida del Dipartimento di Stato il suo fedelissimo Mike Pompeo. Quest’ultimo, in qualità di direttore dell’intelligence, autorizzò operazioni segrete in Medio Oriente senza informarne il Pentagono, mentre come segretario di Stato ha ignorato le valutazioni dei diplomatici avventurandosi in iniziative rischiose, allo scopo di assecondare Trump. D’altronde il tycoon non è certo il primo presidente USA che si contraddistingue per un simile approccio: si pensi allo scandalo Watergate della presidenza Nixon.
Anche Joe Biden crede che le spie possano essere uno strumento essenziale, ma con una differenza: intelligence e diplomazia devono “sposarsi” perfettamente per proteggere gli americani tutti, piuttosto che per realizzare gli interessi del presidente in carica. È essenziale che i comparti collaborino: le informazioni fornite dalle spie sono fondamentali affinché i diplomatici sappiano come muoversi nei meandri della politica interna degli altri Paesi. Per questo motivo per il ruolo di direttore dell’intelligence Biden ha scelto William Burns, colosso della diplomazia americana. Al servizio di cinque presidenti, da Ronald Reagan a Barack Obama, e ambasciatore degli USA presso Mosca e Amman, annovera tra i suoi successi l’essersi saputo muovere nello storico accordo sul nucleare con l’Iran durante l’amministrazione Obama, dimostrandosi un profondo conoscitore delle relazioni internazionali e della diplomazia. Egli sarà dunque a capo della politica estera, la cui guida è affidata anche ad altri due vecchi conoscenti di Burns: Antony Blinken, in qualità di segretario di Stato, e Jake Sullivan, consigliere del presidente per la sicurezza nazionale.
Per il nuovo presidente si tratta in prima battuta di ridare dignità alle istituzioni americane dopo l’era Trump e in secondo luogo di essere circondato da uomini capaci e competenti per poter rilanciare la leadership, che dovrà affrontare numerosi dossier scottanti che riguardano in parte anche noi oltreoceano. Esempio ne è la questione cinese: americani ed europei dovrebbero agire in contemporanea nei confronti della Cina, la quale si è oramai affermata come superpotenza economica. Ciò orienterebbe i vari Paesi a scendere a compromessi con il governo di Pechino senza però rilegare il Dragone ad un angolo, ad oggi percorso impraticabile.
Tra le emergenze comuni troviamo inoltre ad un posto di rilievo la ripresa del dialogo sul nucleare con l'Iran, al fine di evitare un arricchimento dell’uranio al 20% come stabilito dal Parlamento, se entro febbraio 2021 non verranno rimosse le sanzioni economiche imposte dopo aver ritirato gli USA dall’accordo con la Repubblica Islamica per volere di Trump. Decisione che ha valso allo stesso uno stabile rapporto con gli altri Paesi del Medio Oriente ostili all’Iran, come Israele, per aver messo in ginocchio il Paese.
Per far fronte a tutte queste sfide l’Ue dovrebbe cercare di rimodulare la propria leadership accrescendo il proprio peso politico nel contesto internazionale. Ciò può avvenire soltanto favorendo l’avvio di una nuova stagione al suo interno. Come in America, dove la vittoria di Biden non è bastata a spazzare via ideologie estremiste, anche in Europa vediamo forti segnali di instabilità: esempi la Brexit e i governi tutt’altro che democratici di Ungheria e Polonia. Le democrazie occidentali, quindi, dovrebbero rimodernare i loro apparati diplomatici affinché siano all’altezza delle sfide che li attendono. E le scelte adottate negli States dal presidente Biden vanno proprio in questa direzione.
Davide Musumeci
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