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Joker 

Joker è sicuramente uno dei film che si è fatto notare di più in questo 2019 : il Leone d’Oro a Venezia, il boom al Box Office, e poi la critica che osanna l’interpretazione magnetica di Joaquin Phoenix, il pubblico che rimane

ipnotizzato dalle sue movenze e dalla sua espressività. I motivi di questo fenomeno mediatico li individuerei nell’empatia e nel coinvolgimento emotivo che questo noir suscita grazie a Phoenix, allo scenario di Gotham che ricorda molto la New York di Scorsese in “Taxi Driver”, e ad un realismo quasi pessimistico. Il mix di scene dirette ed esplicite, di monologhi e riflessioni di una sincerità spiazzante e la messa in discussione di alcuni valori portanti della nostra società riescono nel complesso a fornire un punto di vista ribaltato allo spettatore e un’immedesimazione che tende a colpire dritta allo stomaco. Joker infatti altro non è che uno scarto della società, un reietto, un diverso, storicamente lo è sempre stato. Le sue radici affondano infatti in un romanzo di Victor Hugo, che ne “L’uomo che ride” creò la figura di vittima della società in progressiva emarginazione. Il progenitore di Joker, Gwynplaine, è un bambino il cui volto viene sfigurato a fromare un’orribile cicatrice che lo costringe a sorridere in eterno, viene per questa sua caratteristica sfruttato da un circo equestre. Successivamente il tema verrà ripreso molto tempo dopo da un geniale Nolan, che lo trasforma nella nemesi di Batman. Todd Philips riporta questo super-cattivo in una dimensione umana, fragile, vera, ripercorrendo il processo di snaturazione che trasforma Arthur Fleck, da squattrinato clown altruista ad efferato killer, simbolo di una rivolta populista che non lo rappresenta affatto. Arthur è costretto a ridere dalla sua malattia mentale, proprio come Gwynplaine lo era dalla sua cicatrice, soprattutto quando la risata non corrisponde al suo stato d’animo, ma nasconde anzi un pianto straziante, che rimane in testa anche dopo la visione del film. La sua iniziale ingenuità viene progressivamente distrutta e al suo posto la rabbia repressa ed il senso di abbandono si ricompongono sotto forma di crudeltà folle e sadicamente divertita. Eppure, se ci pensiamo bene, Joker non sarebbe Joker senza la sua crudeltà, ma rimarrebbe invece un Arthur Fleck costretto a subire in modo passivo. Come dice lui stesso alla sua psichiatra dopo i suoi primi crimini: “Non sapevo di esistere,ora esisto ed il mondo se ne sta rendendo conto”. La miccia quindi è molto semplice: sostituire la visione canonica, quella del prodotto,ovvero il killer psicolabile, con un’altra completamente diversa, perturbante, quella dell’uomo inerte, solo, figlio di una società che lo disprezza a causa della sua malattia mentale. È un punto di vista alternativo ma basta ad innescare la scintilla del dubbio. La domanda esplode così spontaneamente nella testa dello spettatore, costringendolo a mettere in discussione se stesso, la propria concezione di giusto e sbagliato, di tragico e comico. È disgustosa solo la freddezza omicida di Joker o anche la totale assenza di empatia degli umani gli uni verso gli altri, le innumerevoli solitudini che insieme creano una società cinica, feroce, che non riesce ad apprezzare la bellezza e la fragilità dell’altro, ma che anzi la usa per sopraffarlo? E fino a che punto la società non è responsabile dei mostri che cerca di sconfiggere e dei problemi che si impegna a risolvere?

Mariachiara Emmolo

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