L’amore, o anche la sola speranza in esso, apre i cuori più duri, persino quelli resi tali da una vita condotta sempre nella stessa maniera.
È questo il caso di Virgil Oldmann, protagonista de “La migliore offerta”, penultima pellicola di Giuseppe Tornatore. L’uomo, anche se anziano, è appagato dal successo che deriva dal suo mestiere di battitore d’aste e intenditore e collezionista d’arte. Ma come l’arte gli è giornalmente così vicina, viceversa la gente gli è sempre stata altrettanto lontana, al punto che Virgil sembra quasi volersi proteggere da essa con i suoi inconfondibili guanti scuri, che usa per maneggiare l’arte.
Egli vive e sopravvive attraverso il sottilissimo, quasi impercettibile, confine tra falso e autentico delle opere d’arte, essendo pervaso dai dipinti dalla bellezza senza tempo che gelosamente custodisce in una sorta di bunker all’interno della sua abitazione. Tali opere sono il risultato di un accordo segreto con l’amico Billy, il quale puntualmente si aggiudica le aste per poi rivenderle all’amico, come convenuto, al doppio del prezzo di aggiudicazione.
Soggetto di questi ossessivi dipinti sono sempre le donne, come fossero per lui una compagnia necessaria, sebbene irreale, che sopperisca alla mancanza di una figura femminile realmente al suo fianco. Ma un giorno Virgil riceve la telefonata di una ragazza che lo incarica di dismettere i suoi beni di famiglia. Né per il primo sopralluogo, né per tutta la fase d’inventario, però, la ragazza si farà viva, in quanto affetta da una rara forma di agorafobia. Più volte Virgil ha l’impulso di rinunciare all’incarico, ma la misteriosa donna lo convince sempre a tornare sui propri passi. Ha così inizio per l’antiquario un’esperienza del tutto imprevedibile, che stravolgerà per sempre la sua vita.
Tornatore, con “La migliore offerta” e in special modo con il suo finale aperto e sconvolgente, non ci offre solo uno spunto per riflettere sull’autenticità dei sentimenti che prova chi ci sta intorno, ma anche una critica al nostro modo, forse superficiale e disattento, al contrario di come dovrebbe essere quello di un critico. Infatti, dovendo riconoscere l’autenticità di un’opera, un critico non si può limitare ad osservare solo quel che si vede: fondamentale è andare oltre le pennellate in superficie. Tale esercizio, però, si fa certamente più complicato quando l’oggetto dell’analisi sono gli esseri umani: il falsario, la persona stessa, sarà necessariamente tentato a personalizzare il lavoro con un “marchio”, per quanto possa entrare in contraddizione con la persona stessa e le azioni della stessa.
Quello del regista è quindi un avvertimento che riprende il tema delle maschere, tanto caro al celebre Pirandello. Il tutto è esaltato anche da una meravigliosa colonna sonora del mitico e, ahimè, recentemente scomparso, Ennio Morricone.
Concludo con quella che ritengo essere la frase più celebre del film, ossia:
“In ogni falso si nasconde sempre qualcosa di autentico”.
Lisa Caruso

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