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Dalla “Nakba” all’apartheid: nuovi sviluppi nella questione palestinese

Tuttora qualcuno presidia la desolata regione intorno a quello che fu il villaggio palestinese di Iqrit, a nord di Israele: da lì i residenti, arabi e cristiani, furono allontanati nel 1948, nell’ambito delle operazioni militari che avrebbero condotto alla proclamazione dello Stato di Israele, con la promessa di potervi fare presto ritorno. In verità, tale ritorno non fu mai autorizzato e, pur di non concretare la decisione della Corte Suprema israeliana, favorevole alle istanze della comunità, l’insediamento fu distrutto.

Nella sua vacuità, Iqrit rappresenta, dunque, un efficace compendio della nota questione palestinese, storia di irriducibili ostilità originatesi dal piano di spartizione dei territori tra uno Stato ebraico e uno arabo, votato dall’ONU nel 1947, la cui complessa attuazione ha provocato più guerre, innescate da offensive provenienti ora da una parte, ora dall’altra.

Gli ultimi scontri risalgono al maggio 2021 e costituiscono la lampante manifestazione di un dissidio irresolubile, fondato, secondo le denunce di attivisti e organizzazioni umanitarie, sul sistema di oppressione e dominazione propugnato da Israele ai danni del popolo palestinese. Il 2 febbraio, in particolare, Amnesty International ha rilasciato un report che ne enuclea i caratteri, analizzati negli ultimi quattro anni, per sostenere la sua accusa di apartheid nei confronti di Israele, in conformità alle norme del diritto internazionale che vietano esplicitamente quei regimi istituzionalizzati di oppressione sistematica di un gruppo razziale rispetto a un altro che comportano gravi violazioni dei diritti umani.

In Israele, la sussistenza di tali condizioni è provata dai crimini contro l’umanità perpetrati anche al di fuori del conflitto armato, quali le violente repressioni di proteste pacifiche o il ricorso arbitrario a detenzioni amministrative persino contro bambini, oltre che contro gli oppositori politici, e alla tortura. Eppure, il cardine dell’accusa, più significativo che eclatante, si può rintracciare in una dichiarazione dell’ex primo ministro israeliano Netanyahu: “Israele non è lo stato di tutti i suoi cittadini… [ma] lo stato-nazione del popolo ebraico e solo il loro”. Questo ideale ha legittimato scelte irragionevoli sul piano securitario, ma funzionali alla difesa del privilegio israeliano e all’imposizione di una supremazia anche demografica.

È cruciale sottolineare che, in conseguenza dei conflitti, sul territorio vigono regimi legali separati, tali che il controllo esercitato da Israele assume peculiarità differenti in zone differenti; tuttavia, proprio questa frammentazione, che si può riscontrare tanto nello status giuridico quanto nella negazione del diritto al ritorno degli sfollati e nell’isolamento dei palestinesi in enclavi separate, specie nei Territori Palestinesi Occupati, è il primo strumento atto a indebolire i legami tra le comunità palestinesi stesse. Ciò è stato indotto da una strategia di espropriazioni e spossessamento sistematico degli “assenti” (come accaduto a Iqrit), che ha instaurato un regime fondiario volto a favorire il proliferare di insediamenti israeliani, anche laddove illegali secondo il diritto internazionale, nell’ottica di una politica di zonizzazione fortemente discriminatoria, in quanto incentiva l’esclusivo sviluppo economico degli israeliani. In un simile contesto di disagio, in assenza di tutele e servizi, inaccessibili anche a causa di forti restrizioni alla libertà di movimento, non può realizzarsi una democrazia.

La lettura del documento di Amnesty International rende tangibile tutto ciò per mezzo di dati, purtroppo pressoché ignorati nel mondo occidentale e percepiti dalle autorità israeliane come segno di antisemitismo. In fondo, è sempre su fronti diametralmente opposti che oscilla la narrativa inerente alla questione palestinese: la redenzione dalla tragedia del genocidio per gli uni, è divenuto “Nakba” (in arabo, catastrofe) per gli altri.



Paola Carpinteri

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