Per la seconda volta nella nostra storia un presidente della Repubblica viene rieletto per un secondo mandato. Dopo una settimana di duri scontri tra i leader di partito, i “Grandi elettori” hanno deciso di votare per la conferma del duo Mattarella-Draghi, garanti della stabilità di una classe politica sfibrata da una stagione che ha portato all’ascesa del fronte sovranista-populista dopo le elezioni del 2018.
Ciò che è successo, in fondo, con la proclamazione del Mattarella bis è proprio il fallimento di quel fronte, sostenitore del primo governo Conte e ricostituitosi per l’occasione della corsa al Quirinale. Mente di questa machiavellica operazione il leader leghista Matteo Salvini, che ha tentato di far eleggere un candidato nominato dal centrodestra d'intesa con Giorgia Meloni e con la parte “contiana” del M5s, ossia fedele all’attuale leader del Movimento, Giuseppe Conte, senza che ci fosse stato un accordo condiviso con gli altri partiti. Questa strategia, però, ha condotto solo a insuccessi: esemplari sono i tentativi falliti di eleggere la presidente del Senato Elisabetta Casellati e, infine, perfino il capo dei servizi segreti Elisabetta Belloni.
Esaurita anche l’ultima carta in gioco (Belloni, appunto), nella mattinata del 29 gennaio cresce tra i parlamentari la consapevolezza che l’operato di questa insolita coalizione-ombra porterà alla rottura dell’ampia maggioranza che sostiene il governo Draghi. È così che, crescendo il sostegno per la rielezione del Capo dello Stato uscente, PD, Italia Viva, LeU, Forza Italia e i 5 stelle “dimaiani”, cioè vicini all’ex capo del Movimento Luigi Di Maio, si compattano in uno schieramento opposto, in grado di privare Conte, Salvini e Meloni dei voti necessari per eleggere un presidente non condiviso. A questo punto, anche a Conte e Salvini non resta altro che allinearsi con la maggioranza di governo per il Mattarella bis.
Tutto porterebbe a pensare che l'esito delle elezioni non abbia indebolito il governo, ma non si può ignorare come i partiti siano usciti a pezzi dalla partita per il Quirinale. Nel M5s si è acuita la profonda divisione interna, già esistente, tra Conte e Di Maio, e il sospetto che il primo abbia fatto il doppio gioco con Salvini rischia di metterlo in cattiva luce con i suoi alleati nell’ala del centrosinistra. Al tempo stesso, si ha l’impressione che anche la Lega viva una situazione analoga. Le frequenti discordanze tra Salvini e il suo vice Giancarlo Giorgetti danno l’idea di un partito spaccato in due: da un lato i “salviniani”, tuttora ancorati all’ideologia populista, dall’altro coloro i quali, desiderosi di un’evoluzione in senso moderato ed europeista del partito, si riconoscono in Giorgetti.
Adesso il malcontento nel centrodestra e nella Lega per il fallimento di Salvini, che avrebbe voluto comportarsi da regista delle operazioni per il Quirinale, rischia di indebolire la sua leadership.
Proprio a causa di tutti questi conflitti interni d’ora in poi Draghi non potrà esitare a imporre la sua autorevolezza sui partiti. Non farlo equivarrebbe a concedere loro troppo spazio in quello che è l'anno pre-elettorale, nel quale ciascun partito cercherà di enfatizzare i propri meriti. La messa a terra delle riforme del PNRR necessarie per la modernizzazione del Paese, motivo per il quale è stato scelto da Mattarella, deve restare l’unico faro che guidi l’azione del premier Draghi.

Davide Musumeci
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