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Eutanasia

La morte. Che sia abbracciata da lacrime e ricordi o seguita da sorrisi beffardi e residui d’odio, non può essere controllata. Ogni uomo, però, può mettere la parola fine alla sua esistenza; è forse il più grande diritto naturale di cui disponiamo. Ciò, però, non vale in Italia, dove eutanasia e suicidio assistito sono legalmente considerati alla stregua dell’istigazione al suicidio. Erroneamente, vengono usati come sinonimi. Con eutanasia, si intende una pratica in cui, il paziente, richiede l’aiuto di un medico per morire: in questo caso la cooperazione è diretta e l’autonomia del paziente è meno forte. Si parla di eutanasia “diretta”, quando avviene tramite una somministrazione letale per mano di terzi; di eutanasia “passiva”, quando prevede la sospensione di un trattamento necessario per mantenere in vita un paziente. Il suicidio assistito, invece, avviene autonomamente; il medico, si limita a prescrivere la dose letale di farmaco.

Pertanto, un medico, di fronte ad un paziente sofferente, non può che rimanere a guardare. Inerme.

Dal canto suo, il malato, non può neanche desiderare di porre fine al suo tormento.

Da sempre, queste pratiche sono dei tabù nel nostro Paese, soprattutto a causa dell’opinione pubblica, alimentata dalla Chiesa (unico nel suo genere il caso del Cardinale Martini, alto prelato ed ex arcivescovo di Milano che sosteneva: “Al malato grave spetta in ogni momento il diritto di far interrompere le cure che lo tengono in vita”, arrivando addirittura a scontrarsi col Papa). Malati terminali, persone in fin di vita, sono, quindi, costretti ad uscire dallo Stato, solo perché vogliono smettere di soffrire. Il dolore è insopportabile, ma, impotenti, non possono neanche morire nel Paese in cui hanno vissuto. Lontano. Da tutto e da tutti.

È il caso di Fabio Antoniani, in arte dj Fabo, il quale, a seguito di un incidente, viveva, ormai, in un mondo buio, a causa della cecità, rinchiuso nel suo corpo, incapace di muoversi, come fosse in una prigione. Il quarantenne milanese, da anni, chiedeva di poter morire in Svizzera, ma la legge non lo consentiva. È stato l’attivista radicale Marco Cappato a liberarlo dalle catene del suo letto di ospedale, il quale, però, tornato in Italia, è stato processato, rischiando dai 5 ai 12 anni.

Dopo due anni e mezzo, lo scorso 24 Settembre, finalmente la Corte Costituzionale si è pronunciata: “È non punibile, chi agevola l'esecuzione del proposito di suicidio, autonomamente e liberamente formatosi, di un paziente tenuto in vita da trattamenti di sostegno vitale e affetto da una patologia irreversibile, fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che egli reputa intollerabili ma pienamente capace di prendere decisioni libere e consapevoli".

La sentenza, segna un punto di svolta. Quest’ultima, infatti, potrà essere usata in aula come precedente, costituendo così il primo passo verso la legalizzazione. Nonostante ciò, una vera e propria norma sul fine vita, è ancora lontana.


Antonio Rizza

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