Il 28 settembre di quest’anno è una data che potrebbe entrare nella storia, per via delle elezioni presidenziali in Afghanistan. La situazione politica di questo Paese mediorientale non è difatti trascurabile per noi occidentali. Pensare a questo Stato significa pensare alla devastazione di quarant’anni di guerre e lotte civili, dapprima sotto il regime comunista (1978-1992), poi sconfitto dai cosiddetti mujahidin, sostenuti da Stati Uniti, Pakistan e Arabia Saudita, i quali si divisero in seguito in due componenti (Alleanza del Nord e Talebani), dando così inizio a un’aspra guerra civile (1992-1996), che vide la successiva affermazione del duro regime talebano. Arriviamo quindi all’11 settembre 2001, tristemente noto per l’attentato a New York e Washington, che si scoprì essere stato finanziato da al-Qaeda, organizzazione terrorista che godeva della protezione talebana in Afghanistan. Scoppia la guerra fra i talebani e il governo di Kabul, sostenuto da Stati Uniti e NATO. È semplice comprendere l’elevatezza del numero delle vittime, di cui ben l’80% sono stati civili cittadini. Ancora oggi non passa giorno senza che ci siano attentati e, mentre le truppe americane sono ancora sul territorio (l’accordo tra talebani e Stati Uniti è stato bloccato il 7 settembre), larghe aree del Paese sono sotto il controllo dei talebani. Proprio loro hanno tentato di forzare il rinvio di queste elezioni (e non sarebbe stata la prima volta) minacciando un “bagno di sangue”. Il 28 settembre, però, non sono riusciti interamente nel loro intento: 9,6 milioni di afgani sono stati chiamati alle urne. Ma oggigiorno gli elettori sono demotivati, e soprattutto temono per la loro incolumità. Seppur non si possa parlare di una vera e propria strage, infatti, si sono contati circa 400 attacchi ai seggi, che hanno causato almeno 5 morti e 37 feriti gravi. Tutto ciò ha di certo contribuito alla registrazione di un’affluenza inferiore al 20%, forse la più bassa degli ultimi anni. Nel momento in cui scrivo, l’esito di queste elezioni non è ancora noto, ma non è su questo che vorrei soffermarmi. Trovo, invece, estremamente rimarchevole i dati sull’affluenza, che mostrano l’immagine di una società che non crede più nella democrazia e nel suo esercizio: è un popolo che non ha più speranze per il futuro, non crede qualcosa possa ancora cambiare e non si fida di chi dovrebbe governarlo. In fondo, sono tanti gli elementi che rendono incerto il futuro: ad esempio, non può essere sottovalutata la situazione di stallo militare dell’attuale fase della guerra, che non ha un suo vincitore né negli Stati Uniti né nei Talebani. Tale situazione ha determinato la decisione di Trump di cominciare le trattative per ritirare le truppe americane dall’Afghanistan, le quali, come ho già scritto, sono state momentaneamente interrotte ma probabilmente non per molto. Questo scenario accresce un grande dubbio: che il governo che si formerà da queste elezioni, a prescindere da chi avrà il potere, senza alcuna protezione internazionale, sarà troppo debole per opporsi all’ascesa dei talebani.
Paola Carpinteri
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