Quasi un anno fa un video pubblicato su TikTok da una teenager americana portò alla luce un argomento tanto inquietante quanto preoccupante. La ragazza, fingendo di fare un tutorial di make-up, riuscì ad aggirare la censura del social cinese e a discutere di una problematica alquanto scottante, non riconducibile, tra l’altro, a nessuna delle due questioni principali che crucciano il nostro pianeta oggigiorno, ossia l’emergenza sanitaria e quella ambientale. Trattava invece dei campi di concentramento della stessa Cina.
La diciassettenne nell’arco di 30 secondi spiega in parole povere le condizioni di vita dei Musulmani rinchiusi in questi campi, costretti ad essere allontanati dalle loro famiglie, a bere alcolici e mangiare carne di maiale (tutte pratiche vietate dalla religione islamica), a rinnegare le loro convinzioni. Addirittura, nel peggiore dei casi, le conseguenze alla ribellione comprendono stupri e/o uccisioni.
Molteplici sono le colpe che possono condurre gli uomini, arrestati e rinchiusi senza regolare processo, verso questi luoghi di tortura, di cui in primo luogo il governo cinese negò l’esistenza, ma che in seguito definì campi ‘di indottrinamento politico e rieducazione’. Troviamo come colpe, ad esempio, il navigare su un sito web straniero, ricevere telefonate e messaggi da parenti all’estero, pregare regolarmente o farsi crescere la barba: insomma, roba pesante!
In seguito alla pubblicazione di quel video, attivatesi immediatamente le ricerche, le immagini satellitari hanno rivelato la presenza in Cina di circa 400 campi di concentramento. È stato inoltre riportato che le fabbriche all’interno delle quali lavorano i prigionieri rifornirebbero alcuni dei più grandi marchi internazionali, come Apple, Samsung, Nike, BMW, aziende che però hanno smentito il tutto. Scandaloso!
La Cina tuttavia non è l’unica.
‘A quel tempo odiavo mia madre per avermi messo al mondo in un campo di tortura’. È questa una delle tante testimonianze rilasciate da Shin Dong-hyuk, l’unica persona nata, vissuta (fino all’età di 23 anni) e riuscita a fuggire da un campo di internamento della Corea del Nord: il Campo 14, il più “famoso” tra i sei campi nordcoreani in quanto uno dei più duri. Al 14, luogo dove amore e pietà erano parole prive di significato e dove Dio non era né morto né scomparso, in quanto Shin semplicemente non lo aveva mai sentito nominare (come non era mai venuto a conoscenza delle meraviglie del mondo al di fuori di quelle maledette mura che lo imprigionavano), i detenuti scontano tutti la stessa pena (valida anche per ben tre generazioni di individui riconducibili al presunto colpevole): l’ergastolo, poiché ritenuti responsabili di reati politici, talvolta contro lo Stato.
Ritengo sia dunque di fondamentale importanza prender coscienza di questa piaga della società, di cui per l’appunto non molti sono a conoscenza. È inammissibile che nel XXI secolo esistano ancora queste rozze forme di violenza fisica e psicologica, come ovviamente è inammissibile che siano esistite in passato.
Gabriele Ferraro
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