Passiamo la maggior parte della nostra vita al lavoro, eppure continuiamo a dare per scontato che lavorare significhi necessariamente mettere in secondo piano il nostro benessere psicologico. Questo comportamento è dovuto allo sviluppo di una concezione meccanica del lavoro.
Infatti, fin dall’infanzia i nostri genitori, la società stessa e la scuola ci aiutano ad immergerci nelle regole di convivenza civile che, seppur necessarie, spesso non lasciano spazio al fattore psicologico. Non a caso, nella nostra società è oramai radicata l’idea che un soggetto diligente sia colui che “sopporta” e sacrifica qualcosa, piuttosto che una persona con equilibri ben precisi e che si conceda di curare i propri disagi. Questo perché, nel contesto in cui viviamo, lo stigma legato ai problemi psicologici è ancora molto diffuso e sul lavoro è ancora più difficile ammettere di “star male”, dato che simili difficoltà potrebbero riversarsi su fattori come la produttività o la performance del lavoratore, che sono requisiti fondamentali per le aziende fin dal XIX secolo, quando iniziò l’espansione della produzione industriale massiva. Tuttavia, la mancata comunicazione dei propri disagi può provocare doppiamente ansia e stress al lavoratore, causando comunque l’effetto opposto a quello desiderato, ossia improduttività e disattenzione. Peraltro, dall’Ottocento ci separano ormai così tanti anni che ci si aspetterebbe di certo qualche progresso! Ad ogni modo, con la diffusione di questa condizione mentale, si è diffuso anche un termine specifico per identificarla: “burnout”, letteralmente “esaurimento” , che racchiude tutte le conseguenze di questo stato di stress acuto, inefficienza e, in alcuni casi, alienazione. Sicuramente, il fatto che vi sia oramai un termine di uso comune per indicare questo fenomeno sottolinea l’esigenza che si è generata di rendere evidente la trascuratezza che ha assunto una questione di tale importanza.
Non a caso, oggi un lavoratore su quattro si dimette dal suo lavoro (pur non avendone trovato uno nuovo) affinché possa preservare la sua salute mentale e questo segna un “dato patente”: la società sta male.
Dunque, possiamo solo augurarci che questa tacita denuncia sia, invece, determinante per essere tutelati dal punto di vista psicologico anche in contesti lavorativi!
* i dati analizzati sono stati rilasciati dall’Osservatorio HR Innovation Practice del Politecnico di Milano.
Veronica Aprile

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