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PSYCO 1960 vs PSYCO 1998

E’ accaduto a tutti almeno una volta di sentirsi chiedere se si è appassionati o meno del genere horror. Ebbene, volendo rispondere da parte mia a questo, non c’è volta che non pensi a Psyco, intramontabile capolavoro hitchcockiano, per quanto oggigiorno si sia abituati a effetti cinematografici un tempo inesistenti ma, che non si percepisca proprio data l’assenza degli stessi la grandezza di questo classico del genere? Non dimenticate che, all’interno di questo, grande ruolo era dato alla colonna sonora, rispetto ad oggi. Era il 1960 quando Hitchcock portò il film sullo schermo, tratto dall’omonimo libro di Robert Bloch, di cui furono momentaneamente bloccate le copie per evitare che si conoscesse il finale della storia. La trama vede protagonista la giovane Marion, segretaria cui vengono consegnati 40.000 dollari da depositare in banca, dove mai si recherà, partendo piuttosto per un viaggio on the road, verso il suo sogno, che crede lontano dalle difficoltà di un amore clandestino e di un lavoro che le provoca emicrania. Interpretata da Janet Leigh, ella è allo stesso tempo alta e altera come ogni eroina hitchcockiana, dall’aspetto evocativo di sessualità tanto angelica quanto perversa, e di freddezza che sia seduce sia respinge, simbolo iconografico della distanza tra uomini e donne e dell’attrazione intrisa di paura che gli uni provano per le altre. Ma di lei colpisce la conversazione con Norman, proprietario del motel presso cui si reca nella notte: il disagio esistenziale che lo costringe dipendente dalla madre scuote Marion, facendole desiderare di tornare alla sua vita, a suo modo piena. Ma tornare indietro è possibile? E soprattutto, che il remake che Gus Van Sant fece del film sia inutile e/o fallimentare? Esiste chi lo abbia ritenuto tale, se si considera che i remake costituiscono sempre una scommessa incerta, ingigantita trattandosi di una pietra miliare cinematografica. Ma Van Sant prevedeva di seguire con precisione quasi ossessiva persino inquadrature e montaggi originali, optando per un remake shot-for-shot (inquadratura), o frame-by-frame (fotogramma), nonostante la scelta di variazioni di altro tipo: relativamente alla scena iniziale, si ha l’aggiunta del sottofondo di una coppia nella stanza di fianco a quella di Marion e dell’amato, accanto cui si inquadra una mosca; la somma in denaro è stavolta di 400.000 dollari; Van Sant fa inoltre largo uso dei colori, soprattutto arancio e verde, come ad eliminare il simbolismo intrinseco di solito dato a bianco e nero. E’ curiosa in entrambe le versioni, ma specialmente nella prima, la presenza di uccelli che incombono minacciosi sulla stanza, alcuni dei quali stampati in camera di Marion, il cui cognome, Crane, che in inglese significa “gru”. Ma concentriamoci sulla scena più celebre, quella della doccia, che peraltro attesta il primo tentativo di presentare sul grande schermo una stanza da bagno, con tanto di inquadratura al water. La scena è praticamente rimasta intatta a livello tecnico: un problema è forse che Anne Heche non presenta medesima sensualità di Janet Leigh, il cui sex appeal metteva lo spettatore in condizione di volersi avvicinare. Si ricorda, però, che tra le parti migliori del remake vi è l’attenzione per alcuni particolari di secondo piano nell’originale.

Alla fine, Van Sant si è solo dimostrato forse il più grande fan di un maestro desideroso d’omaggiare: perché non premiare la sua audacia e la sua ambizione?

Lisa Caruso

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