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Straordinaria normalità

Di Sara Manenti

Riceviamo e pubblichiamo quanto condiviso con noi da un'ospite dell'evento "Gener-azioni disseminate" (12 novembre 2022).

Parlando di libri, di sport e della mia vita posso dirvi che oggi sono arrivata a pagina 45 del mio personalissimo libro e che in questo libro non c’è pagina in cui non ci sia stato, in qualche modo, lo sport.

Se dovessi dare un titolo alla mia storia sarebbe “straordinaria normalità”.

Ho sempre avuto molta facilità ad approcciarmi allo sport, ma questa facilità non ha fatto di me una grande atleta, ed è per questo che vi parlo di normalità. Ma lo sport mi ha portata a fare delle esperienze che definisco straordinarie per quello che hanno rappresentato per me, per la mia crescita e per la donna che sono: una donna, una moglie e una mamma normale ma credo straordinaria, come ciascuno di noi è, nella mia unicità.

Lo sport mi è sempre piaciuto.

Mi piace guardarlo in tv: sono cresciuta condividendo questa passione con mio padre seduti vicini, spesso accucciati sul divano, con lui che a volte mi allontanava dicendomi “Sara, sei una ciocca”; mi piace guardarlo dal vivo: insieme ai miei fratelli maggiori andavo a vedere la Virtus Ragusa quando giocava in serie b.

Ma soprattutto mi piace praticarlo.

A 10 anni ho iniziato a fare pallacanestro, perché entrambi i miei fratelli giocavano già.

Uno dei ricordi più belli di quel periodo riguarda i campionati studenteschi a cui ho partecipato per la scuola media “Lipparini”. Io e le mie compagne di squadra, la maggior parte delle quali ha iniziato a giocare a 10 anni insieme a me e con le quali ho continuato a giocare fino ai 18 anni, alla nostra prima partecipazione in prima media non siamo riuscite a superare la fase provinciale. In seconda media, superata la fase provinciale, ricordo come noi e tutte le altre ragazze partecipanti guardavamo con timore e ammirazione la squadra del Patti che sapevamo essere la squadra da battere. In terza media quando siamo arrivate a disputare la fase regionale non è stato difficile riconoscere che quegli stessi sguardi erano rivolti a noi…: eravamo passate dall’altra parte, eravamo noi la squadra da battere ed effettivamente quell’anno siamo passate alla fase nazionale. E’ stato bello sapere di rappresentare il basket femminile studentesco di tutto il Sud Italia, da Latina in giù. Ricordo la delusione di aver perso una delle partite per 1 solo punto, ma ricordo soprattutto l’emozione di giocare rappresentando qualcosa che era più grande di noi, ancor di più il divertimento di dormire fuori casa in stanza con le compagne, condividere con loro quest’esperienza unica, cose che a 13 anni, almeno quando io avevo 13 anni, non erano per nulla usuali.

Le mie giornate in tutti gli anni del liceo classico sono state scandite da scuola, compiti e basket, allenamenti settimanali e partite. L’allenamento era un impegno a cui non mancavo mai, nessuna di noi mancava mai. Ma il presupposto per poter fare basket era andare bene a scuola. Ed è grazie alla nostra costanza, al nostro impegno e alla pazienza e dedizione del nostro allenatore che siamo cresciute anche cestisticamente fino a battere le squadre di Ragusa, dove il basket è tradizione, contro cui da piccole perdevamo sempre. E ancora fino a giocare in serie B. Per una realtà piccola come la nostra avere una squadra femminile tutta di giocatrici sciclitane che si andava a scontrare alla pari con squadre di città come Catania, Messina e Palermo con un bacino di atlete molto più ampio e che utilizzavano anche giocatrici pagate, è stato significativo.

Un episodio vi può dare la misura di cosa ha rappresentato per me la mia squadra: per partecipare ad una partita importante ho perso il matrimonio di un mio primo cugino e, contrariamente a quanto io stessa potessi immaginare, i mie genitori non si sono opposti perché riconoscevano la mia passione, il mio impegno e la mia serietà anche nei confronti delle compagne di squadra che non potevo abbandonare.

Due sono state per me le figure fondamentali in quegli anni.

Il mio allenatore, che era anche un grande psicologo: lo devi essere quando hai a che fare con 15 ragazze in età adolescenziale. Sul pulmino, mentre andavamo a fare le trasferte, ci faceva parlare della scuola, dei nostri primi batticuore, delle difficoltà che ci preoccupavano. In campo ci chiedeva impegno ma sapeva farci ridere, chiamava i nostri schemi di gioco con i nomi dei ragazzi che ci piacevano. Durante le trasferte, sul pulmino che lui stesso guidava, cantava e coreografava con noi le canzoni di “Non è la RAI” (primordi di TikTok!): immaginate quanto è lungo il viaggio andata e ritorno da Palermo con 10 ragazze in queste condizioni?

E poi mia mamma che mi accompagnava a tutti gli allenamenti, che per un anno mi ha anche portata a Modica a fare nuoto “Perché non si può vivere in un posto di mare senza saper nuotare come si deve”, che si impegnava a farmi mangiare bene e pur di farmi fare colazione, pasto che io avrei saltato preferendo dormire 5 minuti in più, mi faceva delle mini porzioni di tiramisù a cui era impossibile dire di no’! Dopo il diploma, lei che mi conosceva come nessun altro, mi consigliava di fare l’ISEF. Io non ho seguito il suo consiglio, ma non vi nego che ancora oggi mi chiedo come sarebbe stata la mia vita se avessi fatto della mia passione il mio lavoro.

Potrei raccontarvi delle giornate trascorse a giocare a tennis insieme ai miei amici di sempre dove chi sapeva giocare veramente si mescolava a che si improvvisava tennista a garanzia di un divertimento a tratti esilarante, delle estati passate nei campi di beach volley fino a quando faceva buio e la palla non si distingueva più spostandosi nei vari litorali vicini per disputare i tornei, degli anni dell’università in cui ho fatto nuoto iniziando a fare 25 vasche in un’ora e arrivando a nuotarne più di 100 nello stesso arco di tempo perché se non c’era nessun avversario con cui confrontarsi, potevo comunque essere in sfida con me stessa, o di quando, tornata a Scicli, ho preso il patentino da allenatore di minibasket ed ho allenato i bambini di 5 anni… ma preferisco venire ad oggi, alla pagina 45.

Lo sport continua ancora a piacermi, anzi di più, è un bisogno. E condivido questa passione con mio marito Marco. Il nostro è un amore nato sui banchi di scuola quando avevamo appena 10 anni che ci ha regalato Eva e Francesco, centro delle nostre vite.

Guardo ancora lo sport in tv con mio padre e con i miei figli; lo guardo dal vivo perché vedere i campioni è sempre bello e di ispirazione, ma vedere giocare i miei figli, che mi auguro diventino campioni di vita anche grazie alla grandissima scuola che è lo sport, non ha eguali.

E continuo a praticarlo. Continuo ad adorare la pallacanestro, uno sport di squadra in cui le individualità sono al servizio del gruppo, in cui ci si può appoggiare al compagno, in cui senti l’avversario, è vicino a te e puoi toccarlo, e l’agonismo con lui. Quest’anno mi alleno con mia figlia Eva e altre ragazze, tutte giovanissime. E in questo contesto dove più che in ogni altro dovrei sentirmi vecchia, io mi sento giovane e viva. Ma a parte la pallacanestro, che è il mio primo amore, mi piace spaziare, le rare volte che ne ho l’occasione, perché il mio amore per lo sport non vuole avere confini.

Guardo i miei figli, come si organizzano con lo studio (molte volte arrivano a casa con parte dei compiti già svolti perché approfittano dei momenti liberi che si creano durante le ore scolastiche per portarsi avanti) perché sanno che l’istruzione è sempre al primo posto e che non perderanno giorni di scuola e non avranno giustificazioni per compiti non svolti anche quando sono impegnati in trasferte lontane che si ripetono per giorni; li guardo impegnarsi in tutto quello che fanno e chiedere sempre di aggiungere altri sport senza mai abbandonare quelli che stanno facendo e di cui si sono appassionati sin da subito.

Ripenso ai miei genitori e ai miei fratelli, a me e a Marco da giovani. Guardo i miei figli e se anche so che la scienza ci insegna che le passioni non si trasmettono geneticamente, penso che quando queste passioni ti impregnano, forse qualcosa passa da una generazione all’altra.

Vi auguro di sognare in grande - perché i sogni sono il motore di tutto - e di porvi obiettivi ambiziosi - perché voliate più in alto possibile - ma credetemi, quello che importa non è il traguardo ma il viaggio!

Ed il mio viaggio continua in questa e in ciascuna delle pagine che ancora ho da scrivere!



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