L’acronimo inglese “NEE”, sta per “Not Engaged in Education, Employment or Training”, in cui riconosciamo tutti quei giovani, appartenenti alla fascia d’età 18-30 anni, che non studiano, non frequentano corsi di formazione e non lavorano. NEET, è una parola che ancora troppo spesso viene ignorata, anche se il suo primo utilizzo risale al 1999, quando venne impiegata in un report della Social Exclusion Unit del governo del Regno Unito che cercava di valutare l’efficacia dei processi di transizione scuola-lavoro. Può sembrare una definizione negativa ma in realtà vengono portate avanti delle ricerche, che hanno come obiettivo quello di scoprire le cause di questo fenomeno che sta diventando un problema sociale significativo in molti Paesi, tra cui l'Italia, dove la percentuale di giovani che rientrano in questa classificazione è tra le più alte d'Europa. Ciò colpisce proprio il periodo adolescenziale, che sappiamo essere il più critico della nostra esistenza, perché l’essere umano inizia una fase di transizione dove è soggetto a forti e continui cambiamenti. Perciò, ancora non si ha abbastanza chiaro chi si è e cosa si voglia fare davvero nella vita. Quando chiediamo a loro di descriversi o di scrivere nero su bianco i loro sogni o la loro visione del futuro, molti lasciano il foglio vuoto. Da questo possiamo capire che la maggior parte dei ragazzi non è stata abituata a pensare a un livello così profondo e ad avere il coraggio di far emergere la propria identità, comprendendo e ammettendo a sé stessi cosa e chi vogliono diventare. Uno dei fattori più importanti è la pressione psicologica sociale: il mondo di oggi, che è in continuo sviluppo, diventa un ambiente sempre più competitivo in cui gli adolescenti provano difficoltà emotive e ansie legate al futuro. Ciò può portare ad abbandoni scolastici precoci o alla scelta di non proseguire percorsi formativi generando una spirale di inattività che è difficile interrompere. Poi, non dimentichiamoci anche un evento traumatico come la pandemia, per nulla facile da superare. Chiusi in casa, senza speranza nel futuro e con la paura di morire. Come credete che i ragazzi abbiano vissuto questa condizione? Molti l’hanno superata senza problemi ma, credetemi, la stragrande maggioranza dei ragazzi ha subìto danni inestimabili i cui effetti si sono palesati anche a distanza di anni.
Il fenomeno dei NEET non è solo un problema individuale, ma un sintomo di disfunzioni sociali ed economiche più ampie. Ridurre il numero di adolescenti in questa condizione richiede sforzi coordinati da parte delle istituzioni, del sistema educativo e del mondo del lavoro. Investire nel futuro dei giovani significa non solo migliorare le loro qualità di vita, ma anche garantire la crescita e la stabilità della società nel suo complesso. Solo offrendo ai ragazzi strumenti concreti e percorsi chiari si potrà costruire una generazione capace di affrontare con fiducia le sfide del domani.
Alice Santangelo
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