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editoriale

Atteggiarsi come se questo fosse un normale e comune rientro sarebbe fin troppo pretenzioso, la tentazione di illudersi e di provare a dimenticare è però forte.

Il 2020 è stato un anno scomodo, doloroso e per certi versi di svolta.

È stato un anno che ci ha chiesto di rivedere le nostre priorità, di ragionare spesso in termini di bene comune e di quindi sfidare l'ormai latente individualismo della nostra società.

L'emergenza sanitaria ha mostrato i sottili e fragili equilibri su cui si posa tutta la nostra contemporaneità, le perdite umane sono state incommensurabili e ci hanno inevitabilmente toccati da vicino.

Lo scenario surreale in cui ci siamo trovati (e in cui ancora ci troviamo) ha scosso le nostra fondamenta, sia individuali che collettive.

Siamo stati costretti a fermarci, a mettere uno stop alla frenesia di tutti giorni, a convivere con noi stessi e proprio per questo credere di essere usciti da questo lockdown invariati sarebbe un po' utopico.

La pandemia ha infatti alterato il nostro modo di percepire la realtà, alcune abitudini che avevamo adesso appaiono assurde e sembrano appartenere ad una dimensione parallela.

Il cambiamento però non è necessariamente negativo, e in molti casi molto meno superficiale di una modifica nella nostra routine, anzi credo che proprio in questo contesto ci sia stato un collettivo risveglio di coscienze. Il tempo a nostra disposizione ci ha dato l'opportunità di osservare il mondo attorno a noi e di chiederci se fossimo soddisfatti di ciò che stiamo costruendo.

Inutile dire che non si potrà mai essere del tutto contenti, c’è e ci sarà sempre un margine di miglioramento, così come c’è e ci sarà sempre la costante necessità di avere un obiettivo (a breve o lungo termine che sia) da raggiungere, perché forse in fondo non sappiamo stare senza.

La nostra generazione ha davanti a sé un numero immenso di variazioni da apportare, molte talmente necessarie che da esse semplicemente dipende la nostra esistenza.

Qui faccio un chiaro riferimento ad un’altra attuale emergenza, quella climatica, che anche nel 2020 si è manifestata, in maniera così evidente da rendere indubbiamente difficile rimanere estranei. Basta pensare agli incendi boschivi avvenuti in Australia nella prima metà dell’anno, che hanno spazzato via 16 800 000 ettari di foresta.

Le enormi proporzioni del nostro dannoso impatto sull’ambiente si sono palesate proprio in questo periodo di stallo, durante il quale, essendo diminuiti notevolmente gli spostamenti, quindi le emissioni di CO2, è migliorata decisamente la qualità dell’aria.

Naturalmente salvare il pianeta su cui viviamo si rivelerà realmente significativo nel momento in cui, dopo l’auspicabile riabilitazione della natura, ci sarà la volontà di lavorare sulla nostra società, di ribaltare e capovolgere una serie dinamiche che ancora oggi continuano a risultare tristemente in un numero assai consistente di oppressioni, microaggressioni e macroaggressioni verso le minoranze, costantemente bistrattate da un sistema che promette continuamente di migliorare, di educarsi, solo per poi continuare come se niente fosse, offuscato da una nube di privilegi oltre la quale è difficile vedere.

Il lavoro da fare è tanto ed è da tempo rimandato e posticipato, le mie speranze sono riposte, spero non vanamente -permettetemi questo scetticismo, la razza umana non ha esattamente ottimi precedenti- , nella nostra generazione che sarà sicuramente oberata ma si spera più serena e realizzata in un mondo magari sano, più giusto e meritocratico.


Mariagloria Parisi


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