(BLAH BLAH BLAH)
[…] Change is not only possible but urgently necessary, but not if we go on like today. [Leaders] say they want solutions, but you cannot solve a crisis that you do not fully understand and you cannot balance a budget if you do not count all the numbers.
[…] Il cambiamento non è solo possibile ma urgentemente necessario, ma non se andiamo avanti come stiamo facendo oggi. [I leader] dicono che vogliono soluzioni, ma non si può risolvere una crisi che non si comprende appieno e non si può fare un bilancio se non si contano tutti i numeri.
Greta Thunberg.
Così si esprimeva la celeberrima Greta Thunberg alla convention “pre” della cop26 scozzese, tenutasi a Milano nel settembre di quest’anno, subito dopo aver esordito con il suo altrettanto celebre “blah blah blah”. Numerosissime sono state le critiche mosse dall’attivista svedese ai leader, chiedendo piuttosto soluzioni, risposte, alternative al solito, appunto, “blah blah blah”, cioè a una sterile conversazione senza alcun riscontro pratico. Sebbene nel nostro piccolo, diverse sono le possibili alternative che ognun* di noi potrebbe mettere in pratica giornalmente per garantire ai posteri un futuro. Una tra le meno discusse è la transizione ad un’alimentazione di tipo esclusivamente, o per lo meno prevalentemente, di natura vegetale. Si parla quindi di “vegetarianismo” e “veganismo”.
Anzitutto è fondamentale chiarire cosa si intenda coi due termini sopracitati, per poter realmente capire il fenomeno: l’enciclopedia Treccani afferma che il termine vegetarianismo (o vegetarianesimo) indica “ogni concezione dietetica, o regime alimentare, che prescrive o raccomanda un’abituale, assoluta astensione dagli elementi di origine animale in base a presupposti o dettami di natura etica, religiosa, igienica, ecc.” mentre il termine veganismo sta a significare “la forma più radicale del vegetarianismo, escludendo dall’alimentazione umana qualsiasi alimento di provenienza animale e consentendo solo l’uso di alimenti vegetali”.
Tuttavia, la soluzione non sarebbe totalmente chiara senza un’accurata analisi dell’intera crisi per cui, chiarito ciò, passiamo al secondo dato del nostro problema: l’influenza del consumo di carne e derivati sul pianeta.
Come dimostrato dalle numerosissime analisi statistiche degli ultimi anni, la produzione globale di carne dal 1950 a oggi è quintuplicata e, seguendo il trend attuale, raddoppierà entro il 2050, come anche la produzione di latte e uova. Gli effetti sul pianeta sono chiari e tangibili: si parla di emissioni agricole e inquinamento da polveri sottili, che fanno capo agli allevamenti, intensivi o meno, specialmente di bovini, tanto dell’intera Comunità Europea quanto dei singoli Stati della stessa, come dunque anche l’Italia. È proprio in Italia che Raffaella Ponzio, responsabile del progetto dei Presìdi italiani e dell’Alleanza Slow Food dei cuochi fino al 2012, specifica al Corriere che “un chilo di carne da hamburger emette 23 kg di gas ad effetto serra, equivalenti della CO2, mentre un kg di piselli ne emette soltanto uno”. Un altro dato è fornitoci dall’Università di Oxford: chi consuma più di 0,1 kg di carne al giorno produce circa 7,2 kg di CO2 mentre vegetarian* e vegan* rispettivamente 3,8 kg e 2,9 kg, causando un aumento pari al 50-54% rispetto ai/le vegetarian* e addirittura al 99-102% nella produzione di emissioni per mano della controparte carnivora.
C’è stat* chi si è domandat* se il problema fosse relativo esclusivamente al consumo di carne e quindi se la pesca rappresentasse o meno un’alternativa valida e, tristemente, la risposta non ha tardato ad arrivare. La pesca industriale, che sta svuotando le nostre acque a ritmi mai così elevati, ha causato una significativa riduzione non solo delle dimensioni dei pesci ma, e soprattutto, del numero di specie che popolano i mari: si parla, infatti, di oltre 700 specie che ad oggi sono a rischio estinzione a causa di questo tipo di attività ittica. È così dimostrato, dunque, che la pesca intensiva non è e non potrà mai rappresentare un’alternativa sostenibile all’allevamento, intensivo, che viene perpetrato su terra, sia per le ragioni già elencate quanto anche per la dispersione di microplastiche nei mari, le quali inevitabilmente torneranno sulle nostre tavole causando problemi a livelli di salute umana.
Ed è proprio qui che entriamo nel vivo del nostro problema e, soprattutto, della nostra soluzione: l’approdo al vegetarianismo e al veganismo.
Indubbia è l’esigenza di un cambiamento di tendenza nell’alimentazione globale da una dieta a prevalenza carnivora ad una dieta a prevalenza erbivora o, almeno, caratterizzata da una significativa riduzione del consumo non solo di carne ma anche, e soprattutto, di pesce e derivati dell’una e dell’altro. In tal modo, si registrerebbero benefici su ogni fronte, dagli effetti sul pianeta agli effetti su chi abita lo stesso, dagli animali all’umanità tutta. A livello ambientale, si ridurrebbero notevolmente le emissioni di gas serra e polveri sottili degli allevamenti, come dimostrato poche righe fa, e contemporaneamente si avrebbe una altrettanto significativa diminuzione del fenomeno della deforestazione. Esempio è il Brasile, medaglia d’argento globale per la concentrazione di bovini, dove oltre il 60% dei territori vittima di deforestazione è destinato al pascolo; o ancora la foresta amazzonica, ridotta di un quinto rispetto all’origine, per favorire l’allevamento di bovini. Inoltre, diminuirebbe il maltrattamento degli animali e aumenterebbe la biodiversità: negli allevamenti intensivi, dove gli animali sono costretti a spazi angusti e talvolta addirittura a mutilazioni, si tendono ad allevare solo poche specie, quelle che garantiscono un maggior profitto a costo più basso; il riscontro nell’agricoltura è che, a causa delle monoculture, si vive delle più importanti sfide alla sopravvivenza degli insetti impollinatori, a causa dei pesticidi e degli erbicidi largamente impiegati nel settore.
Circa l’influenza sul nostro organismo, è evidente che la riduzione del consumo di carne – tranne casi specifichi che ne richiedono la presenza, come ad esempio i casi di anemia o carenze di ogni genere– abbia numerosi effetti positivi sulla salute di ognun* e altrettanto numerose sono le indagini statistiche che lo dimostrano.
In ultima istanza, allora, dovremmo tutt* optare per un nuovo tipo di alimentazione, di natura prettamente vegetale. Tuttavia, la transizione immediata e netta non sarebbe comunque una soluzione realistica, motivo per cui si ipotizza una transizione molto più “dolce”, graduale, caratterizzata da un altro tipo di modifica delle nostre abitudini. Si tratta di un passaggio molto meno drastico, che andrebbe a prediligere non solo le piccole realtà locali ma principalmente il nostro pianeta: preferire prodotti locali e ridurre in modo sostanziale la distanza tra l’allevamento e la tavola, in modo da diminuire le emissioni causate dal maggior inquinante del sistema di allevamento, produzione e consumo di carne e pesce, cioè il settore del trasporto.
Per concludere, allora, non posso che invitare chiunque stia leggendo a preferire per questo Natale prodotti locali o vegetali, provando ad eliminare il più possibile la carne ed il pesce dalle nostre diete per contribuire, seppur in modo marginale ma sicuramente necessario, al benessere del nostro pianeta. Grazie mille per l’attenzione, vi auguro buone feste, buon Natale a chi lo festeggia, e spero nel vostro senso civico.
Beatrice Inì
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