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Editoriale: astronomia

“L’astronomia ci ha insegnato che non siamo il centro dell’universo, come si è pensato a lungo e come qualcuno ci vuol far pensare anche oggi. Siamo solo un minuscolo pianeta attorno a una stella molto comune. Noi stessi, esseri intelligenti, siamo il risultato dell’evoluzione stellare, siamo fatti della materia degli astri.”

Margherita Hack, 1922-2013.


Il nostro rapporto con l’Universo è segnato dalla fallacia delle nostre convinzioni più radicate e dalla nostra inadeguatezza dinanzi ai “perché?” più profondi. L’astronoma Margherita Hack, di cui quest’anno avremmo festeggiato il centesimo compleanno, lo sapeva bene; eppure, non intendeva certo insinuare che lo sguardo dell’uomo che contempla il cielo dovrebbe essere il volto rassegnato dell’inettitudine. Al contrario, la ricerca è la chiave per acquisire consapevolezza, trasformando quelli che sarebbero solo scorci perturbanti di fenomeni straordinari ma incomprensibili in dati con cui confrontarsi razionalmente.

Di certo, non tutte le verità tangibili scientificamente sono avulse da una carica emotiva che, se rivelata, ne mostra il fascino anche ai profani della materia. Ad esempio, molti di noi si saranno imbattuti non di rado nella notizia della scoperta di una “nuova” super-Terra e forse qualcuno, soffermandosi sui titoli, sarà rimasto meravigliato dalla prospettiva, anche se lontana, che lo slogan ambientalista “there is no planet B” (“non esiste un pianeta B”) sia smentito. La verità è che definire un pianeta una “super-Terra" non equivale ad affermarne l’abitabilità, bensì semplicemente a riconoscerlo come roccioso e di massa non superiore a dieci volte quella terrestre. Ci sono miliardi di esopianeti (al di fuori del Sistema Solare) e innegabilmente potrebbero esisterne miliardi simili alla Terra, ma di quelli scoperti finora solo alcuni si trovano nella "Goldilocks zone” (fascia “Riccioli d’oro”), ossia nella zona presumibilmente abitabile del proprio sistema, né troppo vicini né troppo lontani da una stella. Non è il caso di TOI-1075 b, la più recente scoperta di questo genere, resa possibile dal telescopio spaziale della NASA TESS (Transiting Exoplanet Survey Satellite), capace di rilevare variazioni periodiche della luminosità che potrebbero essere attribuite al passaggio di un pianeta, durante la sua orbita, davanti a una stella, secondo il cosiddetto metodo del transito. TOI-1075 b, troppo vicino alla “sua” stella, presenta una temperatura superficiale di circa mille gradi centigradi, difatti è ricoperto da un “oceano” di magma fuso, a conferma dell’impossibilità che sia abitato; ciononostante, ha caratteristiche tali da non essere affatto irrilevante: è una super-Terra tra le più massicce in cui un anno dura 14,5 ore, ma, contrariamente alle aspettative, potrebbe persino essere priva di atmosfera. Si tratta di un “keystone planet”, una chiave di volta per l’elaborazione di modelli di evoluzione planetaria più accurati, ma è comunque probabile che la notizia ci appaia ancora distante 200 anni luce da noi, come lo è effettivamente il suo oggetto.

In realtà, se anche ricordassimo le parole di Margherita Hack e accettassimo che non sempre ciò che esiste è finalizzato all’uomo, sbaglieremmo a credere che addentrarsi nei misteri dell’Universo non apporti nulla all’umanità. Mettendo piede sulla Luna, l’astronauta Neil Armstrong disse: “That’s one small step for (a) man, one giant leap for mankind.” (traducendo liberamente: “un piccolo passo per un uomo, ma un gran balzo per l’umanità”). Nonostante la sua fama, potrebbe essere fuorviante interpretare questa dichiarazione alla luce del fatto che la corsa allo spazio, allora come oggi, è finanziata per ragioni che trascendono il puro desiderio di sapere: se la missione Apollo 11 segnava, nel clima della Guerra fredda, l’appropriarsi degli Stati Uniti di un primato che, con il lancio del primo satellite artificiale, lo Sputnik 1, e il primo volo di un uomo, Jurij Gagarin, nello spazio, aveva già rivendicato l’Unione Sovietica, oggi l’intento del programma Artemis non è poi tanto dissimile (del resto, nella mitologia greca Artemide è sorella di Apollo). Mentre scrivo non si è ancora compiuto l’ammaraggio della capsula Orion, in orbita dal 16 novembre, dopo tre rinvii, perciò è in corso Artemis 1, grazie alla quale sono stati testati senza equipaggio i sistemi che nelle prossime due missioni permetteranno, auspicabilmente tra il 2025 e il 2026, il ritorno sulla Luna, dopo l’ultimo allunaggio del 1972. È già un successo per la NASA, nonché per i suoi partner, quali l’ESA (Agenzia Spaziale Europea) e, nell’ambito di quest’ultima, l’ASI (Agenzia Spaziale Italiana) e l’industria aerospaziale italiana, coinvolta nella costruzione di alcuni moduli. La riuscita delle prossime missioni, pertanto, sarà un trionfo geopolitico, se si considera che le altre potenze non sono indifferenti al ruolo strategico della Luna: Cina e Russia stanno già sviluppando una base lunare che dal 2036 sarà impiegata per esperimenti scientifici e operazioni robotiche, l’ILRS (International Lunar Research Station). Tutto ciò è funzionale a un obiettivo ancora più ambizioso, l’esplorazione di Marte, ma non si ignori, nel frattempo, che le riserve d’acqua ghiacciata, utile alla sopravvivenza e alla produzione di propellente, quelle di elio-3, necessario per la fissione nucleare e quelle di metalli preziosi e terre rare di grande interesse per l’industria elettronica, non sono prive di attrattiva. Insomma, la “new space economy” è già in azione e sembra verosimile che, come negli intenti della NASA, sulla Luna stavolta si torni per restare.

Chissà se questa Luna sarebbe stata capace di ispirare gli scrittori che nella storia della letteratura sono rimasti affascinati dal nostro satellite. Forse, però, come osservava Calvino, la cultura scientifica, anche laddove alimentata dall’utile, traccerà nuovi orizzonti di vita e di pensiero che sarà proprio la letteratura ad esplorare.

Paola Carpinteri


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