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Editoriale: parole

Era il 2018 quando scelsi di far parte della redazione dello Scicliceo. Non alzai la mano decisa quando i caporedattori di allora vennero nella mia classe a raccogliere le adesioni; solo qualche giorno dopo, però, approfittai della confusione all’uscita da scuola per comunicare il mio nome insieme a quello di un’amica. Fu un inizio discreto, all’insegna della timidezza, pervaso di un imbarazzo in cui forse si riconosceranno ancora tanti redattori alle prime armi. Oggi siamo giunti alla conclusione di un anno scolastico in cui, invece, il mio intento principale è stato quello di coinvolgere, proprio perché la percezione di questo giornale come spazio aperto alla creatività e all’espressione di sé avvicinasse quanti più studenti a parteciparvi. Ho scritto per ogni numero pubblicato in questi cinque anni e nelle occasioni più disparate. Ho letto e riletto gli articoli dei miei compagni. Mi sono impegnata perché ogni aspetto, anche nella dimensione più pragmatica dell’organizzazione, fosse all’altezza della lunga tradizione che ci ha preceduti. So, dunque, quanto possa incidere un’attività di questo genere sul percorso liceale e sulla crescita personale. Nel mio caso si è trattato di un’esperienza che, in parallelo ad altre, mi ha permesso di acquisire maggiori consapevolezze, aiutandomi a definire come avrei voluto essere e offrendomi sempre uno spunto per riflettere su quanto mi sta più a cuore. L’urgenza di trasmettere questo messaggio è ciò che mi ha guidata nelle scelte che, con il supporto della caporedazione, ho compiuto negli ultimi mesi. Non posso che ringraziarvi se, quando avete ritirato la vostra copia, le avete rivolto uno sguardo di curiosità, lasciando che quelle pagine vi trascinassero in un vortice multiforme, in un prisma attraverso cui la realtà si scompone nei suoi colori. È arduo trovare la tonalità più adatta e, di certo, nessuna sfumatura può risultare sufficiente, da sola, a cogliere la complessità di fenomeni che, metaforicamente, ci apparirebbero policromi. Si tenta, però, di comunicarne una lettura che rifletta, almeno, il nostro punto di vista, soggettivo ma indubbiamente valido nella sfera personale in cui nasce, con la speranza che si possa dimostrare tale anche dove approda. La ricezione di un messaggio non è affatto scontata, nella misura in cui non se ne può garantire l’univocità. Chi legge adesso queste righe, ad esempio, vi potrebbe scorgere uno sfondo in realtà estraneo alle mie intenzioni e, nonostante la genuinità con cui le ho scritte, io stessa, forse, potrei scoprire fra qualche tempo che le mie parole si sono trasformate in qualcosa di diverso da ciò che rappresentavano originariamente. Non intendo dubitarne: scripta manent, ciò che è scritto rimane; eppure, cosa rimane? Nella loro consistenza materiale i documenti scritti hanno fornito le tracce di antiche civiltà, hanno custodito testimonianze inestimabili di qualcosa che è tanto distante dalla nostra esperienza quotidiana da potersi rivelare all’apparenza inaccessibile. È la stessa sensazione, in fondo, che potrebbe derivare dal confronto con i classici della letteratura, quando sono percepiti come così imponenti nella loro capacità di scavalcare i limiti del contingente, conservando un valore paradigmatico, da sopraffarci: in essi l’esperienza del singolo si compendia nell’universale, tanto da poter smarrire, a primo impatto, la voce dell’autore. È questa che, celata nel retroscena della scrittura, ha animato le parole, conferendo significato al significante. Ma, una volta tradotta in testi scritti, quella voce, per i lettori spesso non una presenza esplicita bensì solo latente, è soggetta a un inesorabile divenire, quasi a un processo di metamorfismo. Non basta pensare alla pagina che subisce una corruzione fisica, ma occorre considerarne il contenuto. Chi lo ha dinanzi, a distanza di poco o molto tempo, non entra in relazione con un prodotto oggettivo, ma conosce soltanto l’interpretazione che di esso viene data nella sua parzialità. Leggendo, si compie un’esperienza soggettiva: chi potrebbe risalire con certezza scientifica allo stato d’animo dell’autore mentre sceglieva una determinata espressione? Si può avere l'impressione di penetrare nella mente di chi ha scritto, ma sono soltanto le nostre percezioni che ci inducono a riconoscere alcuni segnali, forse con l’effetto di associare testi ed emozioni sulla base del nostro modo di vivere queste ultime, probabilmente non perfettamente allineato con quello dell’autore. E anche se lo scrittore si approccia al testo con una sensibilità diversa da quella che lo caratterizzava nella sua stesura, com’è naturale che avvenga allontanandosene (in senso proprio o figurato), si potrebbe rendere conto che non esiste una maniera esclusiva d’intenderlo. La storia ci fornisce esempi eclatanti, basti pensare alla legittimazione che il regime nazista trovò negli scritti di intellettuali, come Tacito, Fichte o Darwin, indiscutibilmente distanti, in primo luogo storicamente, dall’atmosfera in cui si colloca l’ascesa hitleriana. Tuttavia, non è necessaria l’intenzione di deformarle per imprimere alle parole un cambiamento. Anzi, è proprio la difficoltà nel circoscrivere dinamiche di questo genere ad episodi specifici che ci consente di evincerne l’inevitabilità: la sfida è renderle una ricchezza. Se dovessimo confinare ciò che leggiamo (o di cui usufruiamo, riferendoci a mezzi diversi dalla scrittura) a ciò che noi stessi potremmo scrivere, si esaurirebbe la fertilità di un potenziale terreno di confronto. Nel rapportarci a qualcosa che non condividiamo a pieno, invece, siamo costretti a porci delle domande, a definire meglio la nostra identità. Ecco perché mi auguro che lo Scicliceo sia ancora a lungo l’habitat delle voci critiche degli studenti; non un semplice rifugio, ma una finestra spalancata su un orizzonte libero dalle ipocrisie, come merita la comunità del Quintino. Per l’ultima volta,

Paola Carpinteri


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