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EDITORIALE: violenza


We are stronger than those who oppress us, who seek to silence us. […] We are stronger than fear, hatred, violence and poverty.

Siamo più forti di chi ci opprime, chi tenta di silenziarci. […] Siamo più forti della paura, dell’odio, della violenza e della povertà.

Malala Yousafzai, premio Nobel per la pace.


Fate un esercizio insieme a me: provate a ricordare il primissimo episodio di violenza che riuscite a rintracciare nella vostra memoria. Magari sarà difficile trovare proprio il primo ma sicuramente non sarà difficile elencarne diversi. Ecco, vorrei farvi riflettere proprio su questo: quanto profondamente sia radicata la violenza non semplicemente nella nostra società ma piuttosto nella natura umana. Aristotele diceva che “facciamo la guerra per poter vivere in pace”, Hobbes parlava della “guerra di tutti contro tutti” (bellum omnium contra omnes) e così via lungo la linea del tempo.

Sebbene sia indubbia la natura distruttiva e onnipresente della violenza – e più nello specifico della guerra – viene naturale domandarsi come sia possibile che non solo non venga condannata, ma piuttosto condonata e, talvolta, addirittura incoraggiata.

L’enciclopedia Treccani definisce la violenza come “la caratteristica, il fatto di essere violentə, soprattutto come tendenza abituale a usare la forza fisica in modo brutale o irrazionale, facendo anche ricorso ai mezzi di offesa, al fine di imporre la propria volontà e di costringere alla sottomissione […]”. Ritengo giusto specificare, dunque, che per “violenza” non si intende esclusivamente un atto fisico ma anche, fin troppo spesso, un atto di natura psicologica o verbale.

Abbiamo chiarito quindi che non c’è atomo umano non attraversato da violenza e che tutto può essere violenza. Definito ciò, vorrei quindi fare una brevissima digressione su un fattaccio di attualità che, come potete aver intuito, è ormai diventato parte della nostra quotidianità: l’invasione russa in Ucraina. Fate attenzione ai termini che ho scelto: non l’ho chiamata “guerra” ma piuttosto invasione. È inutile anche solo provare a giustificare l’inarrestabile potenza russa per un’operazione militare del genere, specialmente in relazione al numero di vittime civili che sono state registrate finora. Si tratta di un’invasione o, a onor del vero, del capriccio di un bambino con fin troppo potere.

Il bambino sopracitato è il russo Vladimir Putin, attuale presidente della Federazione Russa, ex militare e funzionario del KGB russo. Laureato in legge, ricopre ad oggi il suo quarto mandato presidenziale. Tra le sue mire espansionistiche ha avuto la sfortuna di ricadere l’Ucraina, a cui capo troviamo invece Volodymyr Zelens'kyj. Quest’ultimo, anch’egli laureato in giurisprudenza, è un ex comico poi “buttatosi” in politica, nelle cui mani è ricaduto il compito di condurre il Paese fuori dalle grinfie del tiranno russo. È quindi chiaro, in una dinamica quasi primitiva, chi sia il predatore e chi la preda. Ed è chiaro anche sulla base del fatto che quella in Ucraina non è la prima invasione condotta da Putin e sicuramente non è il primo conflitto che l’ha coinvolto. Anzi! Un articolo di RaiNews di Giuseppe Asta – il cui titolo è appunto “In 23 anni […] Putin non ha mai smesso di fare la guerra” – testimonia in modo puntuale e preciso come ogni anno di “regno” di Putin abbia vissuto un conflitto differente. Si parla di Cecenia, Georgia, Siria e infine Ucraina, nel caso specifico di Crimea prima e Donbass adesso.

Sebbene non ritenga di avere le capacità necessarie per condurre un’analisi completa e corretta della vicenda, vorrei far luce su un particolare di cui mi sono resa conto leggendo i vari articoli che hanno portato alla stesura di questo editoriale. Il modus operandi di Putin è rintracciabile, per grandi linee, in tutte le “guerre” che ha condotto: sfruttare i moti indipendentisti di una nazione – e la regione in cui essi sono più violenti – per poi arrivare a soggiogare l’intero Paese allo strapotere russo, abbindolando i rivoltosi con, appunto, il miraggio dell’indipendenza. L’unico vero contrattempo che il despota russo non aveva considerato era quanto fosse strenua la resistenza ucraina, ad oggi fortunatamente infaticabile.

È così che ci ricolleghiamo all’argomento centrale di questo editoriale: quella che Putin sta facendo sul popolo ucraino è violenza in tutto e per tutto, di ogni genere esistente. Infinite sono le fotografie, i video, le registrazioni audio che dimostrano il dolore e la sofferenza di civili costretti a lasciare le proprie case senza mai la certezza che le riescano a rivedere, intere o meno che siano. È proprio questa la scorrettezza di Putin: coinvolgendo la popolazione civile nel conflitto dichiara indirettamente di non avere alcun riguardo per la diplomazia, per il diritto internazionale ma, soprattutto, per l’altrə. Il suo unico obbiettivo è quello di ottenere più territorio possibile, senza accorgersi di aver fatto un errore madornale: un mucchio di polvere, teatro di morti, non potrà mai renderti potente. Per quanta terra possa controllare, Putin resterà sempre, citando il grande Leonardo Sciascia, nient’altro che un quaquaraquà: “dovrebbero vivere come le anatre nelle pozzanghere, ché la loro vita non ha più senso e più espressione di quella delle anatre”.

Vorrei concludere dunque con un’ultima citazione: si tratta di tre paroline che George Harrison – il celeberrimo chitarrista del quartetto inglese dei Beatles – pronunciò, vero o meno che sia, in punto di morte. È un invito che rivolgo non solamente a chi abbia letto fin qui ma più che altro all’umanità intera, nella speranza che si possa avverare il prima possibile.

Love one another.

George Harrison, 1943-2001.



Beatrice Inì

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