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Lontani dai nostri confini

È stato siglato il 14 aprile l’accordo tra Regno Unito e Ruanda per una gestione condivisa del flusso migratorio verso le coste inglesi: la Segretaria di Stato britannica per gli affari interni, Priti Patel, lo ha definito un investimento in favore dello sviluppo economico del Paese africano.

Del resto, è già stata annunciata una spesa di 120 milioni di sterline, che non esclude future sovvenzioni, mirata a garantire la “delocalizzazione” delle richieste di asilo. Benché non siano stati esplicitati i criteri con cui ciò avverrà, infatti, tutti coloro i quali saranno giunti illegalmente nel Regno Unito verranno considerati per il ricollocamento in Ruanda, dove beneficerebbero di misure di supporto volte a favorirne l’integrazione, qualora fossero ritenuti idonei.

Secondo il premier Johnson, fiero dell’indipendenza dall’UE anche nella questione migratoria, ottenuta grazie alla Brexit, non esisterebbe alcuna alternativa a tale politica, necessaria in considerazione degli arrivi sempre più numerosi di migranti uomini, che, pertanto, “salterebbero la coda”, pur essendo in genere richiedenti asilo o rifugiati. In verità, seppur affermatosi tra i sostenitori della Brexit già ai suoi albori, questo modello, di fatto, ricalca quello alla base dei finanziamenti europei alla guardia costiera libica: bloccare materialmente il flusso migratorio è stato ritenuto prioritario, sebbene una simile strategia di connivenza con regimi dittatoriali e, indirettamente, con i trafficanti di esseri umani, violi spregiudicatamente i diritti dei più vulnerabili.

Peraltro, si tratta di un sistema già adottato da altri Stati, quali l’Australia, che però riaccoglie gli aventi diritto da Nauru, Manus Island e Papua Nuova Guinea, dove vengono condotte le pratiche burocratiche, o Danimarca e Israele, che hanno stretto accordi proprio con il Ruanda.

È, dunque, il Ruanda di Paul Kagame, autocrate al potere dal 2000, il “Paese dell’Accoglienza”? In effetti, il partenariato con il Regno Unito non è che l’ultima tappa di un processo di riabilitazione dell’immagine del Paese dinanzi all’opinione pubblica occidentale, accuratamente sostenuto da campagne mediatiche analoghe a quelle condotte da altre dittature: già anni fa l’agenzia di consulenza americana Racepoint era stata incaricata di un progetto di questo genere, dal costo di 50mila dollari mensili, che riuscì nell’intento di diminuire notevolmente nei canali mediatici l’associazione del Paese al genocidio che vi ebbe luogo, da aprile a luglio del 1994.

Eppure, nonostante i tentativi repressivi, è stato documentato, specie da Human Rights Watch, come il Paese non sia affatto sicuro. Benché sia stato interdetto ai reporter l’accesso ai campi per i rifugiati (che ne ospitano già 127mila), sono noti numerosi casi di abusi, da inquadrare in un contesto più ampio, dato che arresti arbitrari, morti sospette, minacce, intimidazioni, torture e violenze, specie contro i dissidenti, sono comprovati. Anzi, tutto ciò ha destato in passato la preoccupazione del Regno Unito, che si è impegnato a garantire l’asilo politico ai ruandesi che lasciano il Paese, accogliendone, difatti, quattro nell’ultimo anno.

Alla luce dei fatti, la controversa scelta britannica appare difficilmente compatibile con la convenzione di Ginevra sui rifugiati, tanto che l’UNHCR ha espresso forte contrarietà, evidenziando come pratiche simili ledano la dignità di chi, considerato alla stregua di una merce di scambio, meriterebbe invece accoglienza. La tragedia che si consuma oggi in Ucraina ha fortunatamente scatenato un’ondata di solidarietà, eppure siamo in grado di manifestare la medesima empatia nei confronti di quei profughi che scappano da guerre intangibili per noi, ma mai per loro?



Paola Carpinteri

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