Dal 1° febbraio il Myanmar sembra essere ripiombato indietro nel tempo: solo dieci anni fa, dopo cinquanta di regime militare, l’esercito aveva consentito la formazione di un governo civile, cui adesso si sta sostituendo con un colpo di stato. É il Tatmadaw, nome ufficiale delle Forze armate del Paese, tanto disprezzate dal popolo quanto potenti, la vera autorità, all’ombra di Aung San Suu Kyi, leader di fatto.
La sua affermazione come politica ha, in realtà, origine in un paradosso: figlia del fondatore dell’esercito, nonché eroe nazionale dell’indipendenza, è stata per circa 15 anni la guida dell’opposizione alla dittatura, nonostante agli arresti domiciliari. È così diventata nota nel mondo come “la Signora di Rangoon”, Premio Nobel per la Pace nel 1991. Benché le fosse stato permesso di guidare il suo partito, la Lega Nazionale per la democrazia, la sua parabola ha cominciato una fase di discesa nel 2016, quando ha assunto il titolo di Consigliera di Stato (le era stato negato il ruolo di presidentessa). La sua credibilità è del tutto venuta meno con la mancata condanna del genocidio dei Rohingya, minoranza musulmana che l’esercito ha sempre perseguitato, seppur difeso da Suu Kyi. Da allora all’estero è stata tacciata di aver barattato la democrazia con un gioco di equilibrismo, nel quale sul suo attivismo per la libertà sono prevalsi gli interessi della solida casta militare.
Nulla di tutto ciò, in verità, ha minato la figura della Signora in Myanmar, come hanno dimostrato i consensi (circa l’80% dei voti) ottenuti nelle elezioni di novembre. È apparentemente inspiegabile che l’esercito abbia attuato un golpe: Aung San Suu Kyi è ritornata agli arresti domiciliari, con l’accusa pretestuosa di aver importato illecitamente alcuni walkie-talkie. Altri membri del partito sono stati arrestati, i social oscurati, Internet, la rete mobile e le trasmissioni televisive sospese, persino molti sportelli bancomat risultano non funzionanti. Ma, anche in assenza della sua storica leader, è scoppiata la protesta: dalle timide cacerolazos familiari (da finestre e balconi sono stati percossi oggetti, per esempio pentole e coperchi, allo scopo di fare rumore), si è giunti a manifestazioni di massa ed episodi di disobbedienza civile.
Agli occhi del popolo Aung San Suu Kyi ha dimostrato l’esistenza di un’alternativa valida allo strapotere dei militari, ed al suo progetto di costituzione di una federazione birmana va il merito di aver accolto le istanze delle diverse entità etniche compresenti nel Paese. Il rischio attuale è proprio che ciò sia vanificato, dato che dietro il golpe non pare esservi un piano politico strutturato, bensì l’interesse individuale di un singolo, il generale Min Aung Hlaing. Eppure, quest’ultimo sembra sostenuto dalla Cina, che ha esercitato il suo potere di veto per bloccare l’intervento dell’ONU. In fondo, sebbene sia gli Stati Uniti sia l’Unione Europea abbiano minacciato d’imporre sanzioni, il mondo occidentale è diviso: l’ipotesi di negoziazione con i militari non è meno probabile che quella di supporto alla Signora. L’interrogativo, in sostanza, è uno: conterà più la volontà di un popolo o l’ingerenza delle potenze nel quadro geopolitico mondiale?

Paola Carpinteri
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